domenica 19 ottobre 2014

LA REPUBBLICA DI PLATONE

BREVE INTRODUZIONE

Libro 1. Durante le feste Bendidie, Socrate si reca con Glaucone e altri a casa di Cefalo. Questi inizia a discutere con Socrate sui presunti svantaggi e sui benefici della vecchiaia, dichiarando che le ricchezze aiutano l'uomo a sopportare l'età senile e a comportarsi in modo giusto.
Il discorso quindi si incentra sull'essenza della giustizia.
Polemarco sostiene che la giustizia consiste nel fare del bene agli amici e del male ai nemici;
Socrate confuta questa tesi mostrandone i paradossi, e pone l'accento sulla necessità di distinguere i veri amici e i veri nemici da coloro che sembrano tali, ma non lo sono.
Aggiunge che chi danneggia rende sempre peggiore il danneggiato, e questo non può essere l'obiettivo del giusto.
Qui irrompe nel dialogo Trasimaco, che con un intervento aggressivo afferma che la giustizia consiste nell'interesse del più forte, cioè di chi detiene il potere.
Prima obiezione di Socrate: i più forti possono anche sbagliare, cosicché obbedire loro potrebbe significare danneggiarli.
Trasimaco replica che i governanti, quando esercitano la loro arte con competenza, non sbagliano mai.
Seconda obiezione di Socrate: ogni arte non persegue il proprio utile, ma l'utile di ciò cui si rivolge.
Trasimaco insiste: la giustizia è un bene altrui, mentre l'ingiustizia giova a se stessa; per questo è superiore alla giustizia e l'ingiusto gode di una vita più felice del giusto.
Socrate ribadisce che ogni arte è disinteressata; se chi pratica un'arte ne trae un guadagno, ciò è dovuto al fatto che egli pratica insieme anche l'arte mercenaria.
 Perciò il vero uomo politico non mira al proprio interesse, ma a quello dei sudditi, e non accetta di governare per ricevere un compenso.
Dato che Trasimaco identifica l'ingiustizia con la virtù, Socrate lo porta ad ammettere che il giusto non cerca di prevalere sul giusto, ma solo sull'ingiusto, l'ingiusto invece cerca di prevalere su entrambi; non si può quindi attribuire all'ingiustizia la sapienza e la virtù, poiché in tutte le attività chi è competente (e quindi sapiente) cerca di prevalere solo su chi è incompetente.
L'ingiustizia indebolisce l'azione degli uomini, rendendoli discordi tra loro e invisi agli dèi.
Posto che ogni cosa ha una sua funzione e una sua virtù, grazie alla quale può fare ciò che è meglio, la funzione e la virtù propria dell'anima è la giustizia; quindi solo l'anima giusta è felice. 
(continua)


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martedì 16 settembre 2014

Socrate


Una volta, dopo essere stato  preso a calci da un 

tale, a chi gli chiedeva perché avesse sopportato 

tutto, rispose: Se mi avesse preso a calci un 

asino, l'avrei forse condotto in giudizio?

domenica 2 marzo 2014

Non si compie un'azione virtuosa in vista di un premio: il premio sta nell'averla compiuta.
(Seneca)



Il tempo scopre la verità.

(Seneca)
  
Anche in uno stato oppresso c'è la possibilità per un uomo saggio di manifestarsi, e in uno fiorente e felice regnano la sfrontatezza l'invidia e mille altri vizi che rendono inerti.

(Seneca)



Al saggio non può capitare nulla di male: non si mescolano i contrari. Come tutti i fiumi, tutte le piogge e le sorgenti curative non alterano il sapore del mare, né l'attenuano, così l'impeto delle avversità non fiacca l'animo dell'uomo forte: resta sul posto e qualsiasi cosa avvenga la piega a sé; è infatti più potente di tutto ciò che lo circonda.
 (Seneca)



Sii servo del sapere se vuoi essere veramente libero.

(Seneca)


Tre sono le cose che maggiormente bisogna evitare: l'odio, l'invidia, il disprezzo.

(Seneca)

martedì 3 dicembre 2013

SOCRATE E IL PETTEGOLEZZO



“Un discepolo arrivò a casa del saggio Socrate tutto agitato, e non appena entrato cominciò a parlargli in questo modo:

- Maestro, voglio che tu sappia che due giorni fa mi sono incontrato con un tuo amico, del quale devi assolutamente sapere che ha parlato molto male di te… e ha detto a certi suoi amici delle cose terribili… Dato che sono qui da te, voglio che tu venga a conoscenza di tutto quello che ho scoperto, affinché tu sappia che genere di amici hai…

Allora Socrate sorrise e, dopo aver fatto un gesto pieno di compassione, lo interruppe dicendogli:

- Mio caro, aspetta un istante, e prima di parlare pensaci bene! Hai già fatto passare quel che mi vuoi dire per le tre sfere del saggio?

Il discepolo rispose:

- Le tre sfere? Ma non sapevo nemmeno che esistesse qualcosa del genere! Cosa sono mai le tre sfere del saggio, di cui non so nulla a riguardo?

- Proprio perché non lo sai ti inizierò adesso nei misteri delle tre sfere del saggio – gli rispose Socrate.



La prima sfera è quella della pura Verità.


Hai cercato con cura e alla fine hai scoperto che tutto quello che vuoi dirmi è completamente vero, da tutti i punti di vista? Sei completamente certo che quel che mi vuoi dire sia proprio la Pura Verità?

- No… - rispose il discepolo. Perché io ho solo sentito quel tuo amico dire cose terribili su di te ad alcuni suoi amici con i quali parlava.

- Comincio a capire di cosa si tratta.


Passiamo adesso alla Seconda sfera, che è quella della Bontà e della Bellezza.

Ciò che hai scoperto e che mi vuoi riferire è qualcosa di buono? È qualcosa di bello?

- No, anzi, è proprio il contrario… Quando ti dirò tutto quello che ha detto il tuo amico su di te ti farà impressione, e probabilmente ti arrabbierai moltissimo…

- Aha! Si fa sempre più chiaro, disse Socrate.

Passiamo adesso alla Terza sfera, che è quella della necessità e dei benefici.

Ritieni che sia per me proprio necessario, e allo stesso tempo benefico, sapere tutto ciò che quella persona ha detto su di me?

- Ad essere sinceri, no. Non credo che ti serva, e tra l’altro neanch’io ho tratto alcun beneficio da tutto ciò che quella persona diceva su di te, anzi, sarebbe, semmai, qualcosa di miserabile per quel che ti riguarda. - Allora – sorrise Socrate – se quello che mi vuoi dire non è né la Pura Verità, né qualcosa di buono e bello e non mi è assolutamente necessario, visto che non mi porta alcun beneficio, meglio che rinunci a dirmi alcunché a riguardo. 

Dimentica tutto ciò, distaccatene completamente, e adesso visto che comunque sei venuto da me, sappi che sono molto più felice di parlare di qualcosa di bello o di buono, o delle delizie dell’amore.
E se non ti interessa nessuno di questi argomenti, sappi che io sono molto felice di condividere la mia esperienza riguardante gli imperituri vantaggi della saggezza.”

lunedì 19 agosto 2013

sabato 17 agosto 2013


Anche in uno stato oppresso c'è la possibilità per un uomo saggio di manifestarsi, e in uno fiorente e felice regnano la sfrontatezza l'invidia e mille altri vizi che rendono inerti.

(Seneca)

martedì 13 agosto 2013



RIASSUNTO "LA VITA FELICE" - SENECA- CLICCARE QUI



LA VITA FELICE 

Seneca

“Non dar peso alla fortuna, né quando s’avvicina né quando né timori”

“non aver desideri né timori”

“felice è chi vive contento del proprio stato“

“la virtù proceda per prima e porti le insegne; avremo ugualmente il piacere, ma ne saremo padroni e  regolatori”.

Niente felicità senza virtù

C’è un solo dovere: essere felici; e c’è una sola virtù: la giustizia.

Ma che cosa intende il filosofo per “felicità”. La conformità abituale dei pensieri e delle azioni alle leggi della natura.

Corpo e anima sono due soci che si comandano e s’obbediscono a vicenda.

La mia coscienza, non la vostra opinione, sarà la mia regola di vita; non dimenticherò che la mia patria è l’universo, vivrò e morrò senza paura perché avrò amato la virtù e non avrò nociuto né alla mia né all’altrui libertà.

Cerchiamo dunque ciò che è bene fare, non ciò che è fatto più frequentemente, quello che ci può mettere in possesso della felicità eterna, non quello che è approvato dal volgo, pessimo giudice della verità.

Vita felice è dunque quella che si accorda con la sua natura, e che si può raggiungere soltanto se lo spirito è, in primo luogo, sano e in perpetuo possesso di questa salute; in secondo luogo se è forte, vigoroso e inoltre particolarmente paziente e resistente a tutte le prove, sollecito delle cure del corpo, premuroso di procurarsi gli altri beni che allietano la vita, ma senza ammirarne alcuno, capace di fruire dei doni della fortuna, ma senza rendersene schiavo.

Da tutto questo deriva una perenne tranquillità e libertà, essendo stati rimossi i motivi di irritazione e di paura, ai godimenti fragili e meschini subentra una grande gioia, solida e inalterabile, e poi la pace, l’armonia dell’anima, l’elevazione unita alla debolezza, perché la cattiveria è effetto solo della debolezza.

E una forza invincibile dell’animo, sperimentata, calma nelle azioni, ricca di umanità e di attenzione per chi le sta attorno.

L’uomo felice, colui che coltiva l’onestà e si contenta della sola virtù, che non si lascia né esaltare né abbattere dalle alterne vicende della sorte, che non conosce bene maggiore di quello che egli può dare a se stesso, e per il quale il vero piacere consiste nel disprezzo dei piaceri.

La felicità consiste nell’avere uno spirito libero, fiero, intrepido e constante, lontano dal timore e dal desiderio, per il quelle l’unico bene è l’onestà, l’unico male il disonore, e tutto il resto è un vile ammasso di cose che nulla toglie e nulla aggiunge alla felicità, che va e viene senza accrescere o sminuire il sommo bene.

Un animo fondato su queste basi deve necessariamente, voglia o non voglia, provare una continua serenità e una gioia profonda che viene dall’intimo, perché gode di ciò che ha e non desidera nulla di più.

Fugate le paure dalla conoscenza del vero, proverai una gioia profonda e duratura, una bontà che allarga il cuore e allieta l’animo; e ne godrai non come doni esterni, ma come doti scaturite dall’intimo bene.

Può essere considerato felice colui che, grazie alla ragione, non ha né desideri né timori. E vero che anche le pietre e le bestie vivono senza timori e senza tristezza, ma non possiamo chiamarli felici, perché manca loro la consapevolezza della felicità.

Nessuno è felice se non ha sana la mente, e non può avere la mente sana chi cerca, invece del meglio, ciò che gli farà danno.

Felice è chi vive contento del proprio stato, qualunque esso sia, e apprezza quello che ha; felice è colui che affida alla ragione la gestione di tutta la sua vita.
Una mente retta non si volge mai indietro, non odia mai se stessa, nulla cambia della sua vita, che è la
migliore; il piacere, invece, cessa proprio quando diletta di più; e non ha molto spazio: perciò trascorre subito, viene a noia e si fiacca dopo il primo slancio. Così non può esserci alcuna consistenza in ciò che viene e va rapidamente, e si consuma nell’uso stesso.
Gli antichi ci hanno insegnato a seguire la via retta, non la più gradevole, in modo che il piacere sia non
guida, ma compagno della volontà buona. E la natura che bisogna avere come guida; è lei che la ragione consunta e segue.

Perciò vivere felicemente vuol dire vivere secondo natura. Ora ti dirò cosa ciò significhi: se conserveremo con cura e senza timore le nostre doti fisiche e le inclinazioni naturali, ricordandoci però che sono effimere e fugaci; se eviteremo di diventarne schiavi e non ci lasceremo soggiogare dalle cose esterne: se le casuali soddisfazioni del corpo saranno per noi come le milizie ausiliare e le truppe leggere per un esercito (devono servire, non comandare), solo così esse saranno utili al nostro spirito.
Non si lasci corrompere l’uomo, né dominare, dalle cose esterne, ma ammiri solo se stesso, si fidi del
proprio coraggio, sia pronto a ogni evenienza, artefice della propria vita. Le sue risoluzioni rimangano stabili, una volta prese, e i suoi principi incrollabili. Si comprende, anche se non lo aggiungo, che un uomo siffatto sarà equilibrato e ordinato, liberale e amabile in tutte le sue azioni.

Cerchi pure la ragione le impressioni suscitate dai sensi per prenderne gli spunti (non ha del resto altra via da cui partire e spingersi verso la verità), ma poi ritorni a se stessa. Infatti anche l’universo, che tutto abbraccia, e Dio, che guida il cosmo, sono sì volti verso l’esterno, ma poi da ogni parte rientrano nella loro essenza. Così deve fare anche il nostro spirito: quando, seguendo i sensi, e per il loro mezzo, si sarà volto verso i beni esterni, si mantenga padrone di questi e di se stesso.

Il sommo bene è la concordia dell’animo; le virtù saranno infatti là dove ci sono accordo e unità, la discordia starà coi vizi.

Anzitutto, non è per ottenere il piacere che si cerca la virtù; essa procura anche quello, ma non è lui il suo scopo principale benché, pur mirando ad altro, lo consegua.
In un campo, coltivato a grano possono nascere qua e là dei fiori; ma tanta fatica non è stata fatta per
questi pochi steli, che pure sono assai gradevoli. Così anche il piacere non è il premio né il movente della virtù, ma solo un corollario: non piace perché rallegra, ma , se piace, anche rallegra.

Il sommo bene sta nel giudizio stesso e nell’abito morale di una mente retta che, quando ha compiuto il suo corso si è fissata i suoi limiti, ha raggiunto la felicità e non chiede altro; perché non c’è nulla fuori del tutto, nulla oltre la fine.

Il sommo bene è la fermezza di un animo che non si spezza, è insieme previdenza, grandezza, salute
morale, libertà, armonia, bellezza. 
E affermo chiaro e tondo che questa vita che chiamo piacevoli, non la si può ottenere senza la virtù. 
La virtù ha un ben nobile compito: quello di assaggiare i piaceri! 
Il suo aspetto esteriore può dare luogo a equivoci e suscitare cattivi proposti. E come quando un uomo
forte si mette addosso abiti femminile; il tuo pudore sarà rimasto intatto, salva la tua virilità, non avrai 
prostituito il tuo corpo, però hai in mano un cembalo! 
Orsù dunque, la virtù faccia da guida e il nostro cammino sarà sicuro. Nella virtù non v’è da temere alcun eccesso, poichè essa possiede in sé la misura. Se vogliamo quell’unione che abbiamo detto, se ci piace andare verso la vita felice con questa compagnia, la virtù preceda e il piacere la segna.

Solo la virtù può salire fin lassù: i suoi passi superano quest’erta; e la virtù saprà resistere con coraggio e sopportare qualsiasi evento di buon grado e con pazienza, conscia che ogni difficoltà nella vita è legge di natura.

Chi si lamenta, piange e geme viene ugualmente forzato ad obbedire e, anche contro voglia, è costretto a fare quanto gli è imposto. Ma è una follia farsi trascinare anziché seguire di buon grado! Così come è stoltezza e ignoranza della propria condizione lamentarsi per qualcosa che ci manca o ci colpisce, o stupirsi e sdegnarsi per i guai che capitano ai buoni come ai cattivi: malattie, lutti, infermità, e tutte le altre avversità dell’esistenza umana.

Accettiamo dunque con serenità tutto ciò che per legge dell’universo ci tocca sopportare. Noi ci siamo impegnati a questo, a tollerare la nostra condizione mortale e a non turbarci per quanto non è in nostro potere evitare. Siamo nati in un regno: la libertà consiste nell’obbedire a Dio.

La vera felicità poggia dunque sulla virtù.

Nessuno ha mai condannato la sapienza alla povertà. Il filosofo potrà possedere grandi ricchezze che però non sono state rubate a nessuno, non sono macchiate di sangue altrui, non rappresentano il frutto di ingiustizia o di disonestà. Accumulane pure quante vuoi.

Il filosofo dunque non allontanerà da sé la generosità della sorte, e non si glorierà né arrossirà di un patrimonio onestamente acquisito.

Il sapiente non permetterà che nemmeno un soldo di cattiva provenienza varchi la soglia della sua casa; ma non escluderà e ripudierà anche grandi ricchezze, se sono un dono della fortuna o frutto della virtù. Il sapiente non ne farà ostentazione, ma nemmeno le nasconderà.

Poiché siamo d’accordo che le ricchezze è meglio possederle, state a sentire perché mi rifiuto di includerle fra i beni e mi comporto verso di esse diversamente da voi.

“Supponiamo che tutte le mie giornate trascorrano come le vorrei, aggiungendo nuove soddisfazioni alle antiche; non per questo avrò ragione di compiacermi. Inverti ora il segno della sorte; immagina che il mio animo sia dovunque colpito da avversità, lutti, sciagure, che non vi sia un’ora della quale non debba lagnarmi. Non mi considererò infelice perché mi trovo tra tante miserie, né maledirò le mie giornate; ho provveduto perché nessun giorno possa essere nero per me. E con ciò? Preferisco moderare le gioie che dominare i dolori”

Esercitiamo queste virtù frenando l’animo, per impedirgli di scivolare.

Venerate la virtù come una divinità e coloro che la professano dei sacerdoti.
“Io sono come uno scoglio solitario di fronte al mare, che le onde flagellano da ogni parte senza riuscire a smuoverlo e logorarlo nonostante l’assalto di secoli. Attaccatemi, datemi addosso, io vi vincerò sopportandoteli.”

Nota di Gavino Manca

Dialogo di Seneca; De Vita Beata datato 58 d.c. – grande attrazione provata verso il messaggio morale del filosofo romano, tanto vicino a quello cristiano, eppure autonomo nella sua genesi e nel suo sviluppo.
La responsabilità della persona nella ricerca della verità e delle scelte esistenziali; la libertà come capacità, attraverso la ragione, di non avere desideri né timori; la virtù fondata sull’armonia con le leggi di natura; la tranquilla disponibilità verso le alterne vicende della sorte; l’indifferenza al giudizio della “pazza folla”; e si potrebbe continuare a lungo.

Seneca dice “il sapiente non si ritiene indegno dei doni della sorte; non ama le ricchezze, ma preferisce averle; non le accoglie nell’animo, ma nella casa sì; non rifiuta quelle che ha, ma le domina e vuole che esse offrano maggiori possibilità alla sua virtù”; e ancora “ perché rifiutare loro un posto onorevole? Vengano
pure, saranno accolte. Il sapiente non ne farà ostentazione, ma nemmeno le nasconderà.

domenica 4 agosto 2013



Tre sono le cose che maggiormente bisogna evitare: l'odio, l'invidia, il disprezzo.

(Seneca)



Il tempo scopre la verità.

(Seneca)


Anche in uno stato oppresso c'è la possibilità per un uomo saggio di manifestarsi, e in uno fiorente e felice regnano la sfrontatezza l'invidia e mille altri vizi che rendono inerti.
(Seneca)


Sii servo del sapere se vuoi essere veramente libero.


(Seneca)



Al saggio non può capitare nulla di male: non si mescolano i contrari. Come tutti i fiumi, tutte le piogge e le sorgenti curative non alterano il sapore del mare, né l'attenuano, così l'impeto delle avversità non fiacca l'animo dell'uomo forte: resta sul posto e qualsiasi cosa avvenga la piega a sé; è infatti più potente di tutto ciò che lo circonda.


(Seneca)



"Sono schiavi." No, sono uomini. "Sono schiavi". No, vivono nella tua stessa casa. "Sono schiavi". No, umili amici. "Sono schiavi." No, compagni di schiavitù, se pensi che la sorte ha uguale potere su noi e su loro.

(Seneca)

sabato 16 marzo 2013




Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata.
(Seneca)




E' curioso a vedere che quasi tutti gli uomini che valgono molto hanno le maniere semplici; e che quasi sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco valore.
(Seneca)


giovedì 31 gennaio 2013






In verità io desidero vivamente renderti partecipe di tutto, perché amo imparare, appunto per insegnare: né potrà essermi gradita alcuna conoscenza, per quanto sia sublime e utile, se dovrò possederla per me solo.
Seneca

sabato 15 dicembre 2012









Qui se spectat et propter hoc ad amicitiam venit male cogitat. Quemadmodum coepit, sic desinet: paravit amicum adversum vincla laturum opem; cum primum crepuerit catena, discedet. Hae sunt amicitiae quas temporarias populus appellat; qui utilitatis causa adsumptus est tamdiu placebit quamdiu utilis fuerit. Hac re florentes amicorum turba circumsedet, circa eversos solitudo est, et inde amici fugiunt ubi probantur; hac re ista tot nefaria exempla sunt aliorum metu relinquentium, aliorum metu prodentium. Necesse est initia inter se et exitus congruant: qui amicus esse coepit quia expedit et desinet quia expedit.



Chi bada esclusivamente al proprio interesse e per questo si impegna in un’amicizia, sbaglia di grosso. Finirà come ha cominciato. Si è procurato un amico per avere in futuro qualcuno che lo aiuterà, un giorno, a liberarsi dalle catene, ma al primo sferragliare della catena, quello se ne andrà. Queste sono amicizie che la gente chiama opportunistiche: chi è stato preso come amico soltanto per tornaconto, sarà gradito finché sarà utile. Ecco perché uno stuolo di amici attornia quelli che godono di fiorente fortuna. Intorno a chi ha subito un rovescio regna la solitudine; ben presto gli amici se la squagliano, appena messi alla prova. Ecco perché ci sono tanti esempi scandalosi di persone che abbandonano gli amici per paura e di altri ancora che sempre per paura li tradiscono. Il principio e la fine saranno inevitabilmente coerenti: chi ha cominciato a essere amico perché gli conviene, cesserà anche di esserlo perché gli conviene.

tratto dalle Epistulae morales ad Lucilium, Liber primus, epistula IX, Seneca; la traduzione in italiano è di Fernando Solinas.

mercoledì 22 agosto 2012

 Dipinto dell'esimio Artista Peter Paul Rubens
"Seneca"

LETTERA 23



Pensi, forse, che io ti scriva come si è comportato bene con noi l’inverno, che è stato mite e breve; come è cattiva la primavera, col freddo giunto in ritardo, ed altre inezie proprie di chi non sa cosa dire? Io, invece, scriverò solo cose che possano giovare, sia a me, che a te: ti esorterò alla saggezza. Mi chiedi quale ne sia la base? E’ il non compiacersi della vanità. Ho detto “la base”, ma è piuttosto la sommità. Raggiunge il culmine della sapienza chi sa di che cosa debba gioire e non pone la propria felicità in potere altrui. E’ preoccupato e incerto chi è sempre nell’ansiosa attesa di qualche cosa, anche se l’ha a portata di mano, anche se non è difficile ottenerla, anche se le sue speranze non sono state mai deluse. Prima di tutto, caro Lucilio, impara a godere. Tu credi proprio che io ti voglia togliere molti piaceri solo perché voglio tenere lontano da te beni largiti dal caso, e perché penso che tu debba sottrarti ai dolci allettamenti della speranza? Al contrario, desidero che non ti manchi mai la gioia, anzi che ti nasca in casa; e nascerà, purchè essa sia dentro a te stesso. Le altre forme di contentezza non riempiono il cuore, sono esteriori e vane; a meno che tu non creda che uno sia allegro solo perché ride. E’ lo spirito che deve essere allegro ed ergersi pieno di fiducia al di sopra di ogni evento. Credimi, la vera gioia è austera. Pensi, forse, che qualcuno possa, con volto gioviale e – come dicono codesti sdolcinati – spensierato, disprezzare la morte, aprire la porta alla povertà, tenere a freno le passioni, esercitarsi a sopportare il dolore? Chi medita su queste cose sente nell’intimo una gioia grande, anche se poco appariscente. Vorrei che anche tu possedessi questa gioia: essa non ti verrà mai meno, una volta che ne avrai trovato la sorgente. I metalli di scarso valore si trovano a fior di terra; quelli preziosi si nascondono nelle profondità del sottosuolo, ma daranno una soddisfazione più piena alla tenacia di chi riesce ad estrarli. Le cose di cui si diletta il volgo danno un piacere effimero e a fior di pelle; e qualunque gioia che viene dall’esterno è inconsistente. Questa di cui parlo e a cui tento di condurti è una gioia duratura, che nasce e si espande dal di dentro. Ti scongiuro, carissimo Lucilio, fa’ la sola cosa che può darti la felicità: disprezza e calpesta codesti beni che vengono dal di fuori, che ti sono promessi da questo o che speri da quello; mira al vero bene e gioisci di ciò che ti appartiene. Mi domandi che cosa ti appartiene? Sei tu stesso e la parte migliore di te. Anche questo nostro povero corpo, senza il quale non possiamo far niente, consideralo una cosa piuttosto necessaria che importante. Esso tende a piaceri vani e passeggeri, seguiti poi dal pentimento e destinati, se manca il freno di una grande moderazione, a passare al loro contrario: intendo dire che il piacere sta in bilico, e se non ha misura si volge in dolore. Ma è difficile avere il senso della misura riguardo a ciò che si crede un bene. Solo il desiderio del vero bene, per quanto grande, è senza pericoli. Mi chiedi che cos’è questo vero bene, e donde ha origine? Te lo dirò nasce dalla buona coscienza, dai pensieri onesti e dal retto operare, dal disprezzo degli avvenimenti fortuiti, dal sereno e costante sviluppo di un’esistenza che batte sempre la stessa via. Infatti coloro che saltano da un proposito all’altro o, peggio, si fanno trascinare da una qualunque circostanza, sempre incerti e vaganti, come possono avere una condotta sicura e stabile? Sono pochi quelli che decidono saggiamente su se stessi e sulle proprie cose. Tutti gli altri, a somiglianza degli oggetti che galleggiano nei fiumi, non vanno da sé, ma sono trasportati. Alcuni, dove la corrente è più lenta, sono spinti mollemente; altri sono travolti dalla corrente più rapida; altri sono depositati vicino alla riva, dove la corrente si affievolisce; altri infine sono scagliati in mare con moto impetuoso. Dunque, dobbiamo stabilire ciò che vogliamo ed essere perseveranti nella decisione presa. E’ giunto il momento che io saldi il mio debito. Posso pagarti con un motto del tuo Epicuro e chiudere così questa lettera: “E’ triste incominciare sempre la vita” o, se così può esprimersi meglio il concetto, “Vivono male coloro che sempre ricominciano a vivere”. “Perché?” mi chiederai. La massima, infatti, richiede un chiarimento. Perché alla completezza della loro vita manca sempre qualcosa e non può essere preparato alla morte chi comincia a vivere proprio in quel momento. Facciamo in modo di essere vissuti abbastanza:  non si comporta così chi è, proprio in quel punto, intento a preparare la trama della sua vita. E non credere che ce ne siano pochi: è la quasi totalità degli uomini. Alcuni cominciano proprio quando dovrebbero finire. Se ciò  ti sembra strano, aggiungerò una cosa che aumenterà ancor più la tua meraviglia: alcuni cessano di vivere prima di cominciare. Addio.

lunedì 20 agosto 2012

PARTE DELLA LETTERA 16




Tu – lo so bene, caro Lucilio – vedi chiaramente che nessuno può avere una vita felice e neppure tollerabile senza l’amore della sapienza. Una perfetta sapienza ci dà una vita felice, ma a rendere la vita tollerabile bastano anche i primi rudimenti della sapienza. Ora noi vogliamo, con la quotidiana meditazione, radicarli e scolpirli profondamente nell’animo, poiché si richiede maggiore sforzo a metterli in pratica che a proporseli. Bisogna essere perseveranti e, con un continuo impegno, accrescere vigore alle nostre forze spirituali, finché l’inclinazione al bene si trasformi nella virtù operante. Tu non hai bisogno di usare con me molte parole, né di fare una lunga professione di fede: ho già capito che hai fatto grandi progressi. So che tu senti profondamente quello che scrivi: non ci sono né falsità, né esagerazioni. Ti dirò tuttavia francamente quello che penso: ho viva speranza in te, ma non ancora piena fiducia. Vorrei che anche tu pensassi così: non c’è ragione che tu abbia a prestar fede a te stesso troppo presto. Piuttosto, fruga dentro di te, scrutati da varie parti, osservati con cura e, soprattutto, vedi se hai fatto progressi solo nello studio della filosofia, o anche nella vita.